Lelio Luttazzi ed “El can de Trieste”, Giovanni Boccaccio ed il “Khan” di Verona.

Luttazzi
Carissimi lettori,

ci è tornato alla memoria un brano molto allegro di Lelio Luttazzi che altro non era che una lode al vino, una sorta di “nunc est bibendum” di oraziana memoria. Cliccando sul link in alto a sinistra, potete ascoltare l’allegro motivetto che sostiene che i triestini, volgarmente detti “cani di Trieste”, amino particolarmente l’alcoolica bevanda.

Torniamo invece al nostro Cangrande della Scala, il cui nome gli fu imposto dalla madre, Verde di Salizzole, in omaggio al Kubilai Khan di cui tanto aveva parlato Marco Polo. Ella voleva, conformemente al detto “nomina omina”, che il figlio assurgesse a tanta fama quanta ne aveva avuta l’imperatore mongolo della Cina.

Vediamo specificatamente come quest’ultimo viene descritto ne “Il Melione”, al cap. LXIV:
“Vogliovi cominciare a parlare di tutte le grandissime maraviglie del Gran Cane, che aguale (= ora) regna, che Coblay Cane si chiama. , che vale a dire in nostra lingua “lo signore dei signori”. E certo questo nome è ben diritto (= del tutto appropriato), perciocchè questo Gran Cane è il più possente signore di genti, di terre e di tesoro , che niuno signore che sia, ne’ che mai fu.
Tornando in terra veronese, possiamo affermare che effettivamente CAngrande fu un signore magnanimo a Verona e accolse bene Dante Alighieri durante l’esilio.
Ecco come Boccaccio descrive lo scaligero nella novella settima della prima giornata:
“Si come chiarissima fama quasi per tutto il mondo suona, messer Cane della Scala, al quale in assai cose fu favorevole la Fortuna, fu uno de’ più notabili e de’ più magnifici signori, che dallo imperadore Federigo secondo in qua, si sapesse in Italia. ”

Come vedete il nostro Federico II di Svevia, alla cui corte si sviluppò la scuola siciliana, era famosissimo all’epoca.

Ci sembra pertanto opportuno cogliere l’occasione per soffermarci su un sonetto poco conosciuto forse attribuibile a Jacopo Da Lentini, esponente di spicco di questa scuola poetica: Eccolo: si tratta del nr. XXII:

Lo basilisco e lo specchio lucente traggi (= va) a morire cum isbaldimento (= stordimento)
lo cesne (= il cigno) canta più gioiosamente quand’è piì presso a lo suo finimento; (= alla prorpia fine/morte)
lo paon (= il pavone) turbi, istando più gaudente, com’a suoi piedi fa riguardamento (= guarda, dai bestiari medievali)
l’augel fenise s’ardea veramente
per ritornare in novo nascimento. In tal nature eo sentom’embento (mi sento chiamato simile a quelle bestie) chi allegro vado e moro a la bellezza
e ‘nforzo il canto presso a lo finire
e stando gaio torno disarmato e ardendo in foco innovo (= mi rinnovo) in allegrezza
per vui, più gente, a cui spero redire.